I tre volti di Mario Bava di Michele Pernice Sono sicuro di aver fatto solo grandi stronzate. Sono un artigiano. Un artigiano romantico, di quelli scomparsi. Ho fatto il cinema come fare le seggiole... In questa dichiarazione di Mario Bava , risalente al 1979 (lanno precedente a quello della sua morte) traspaiono due dei suoi tre volti. La frase iniziale (che risuona come una vera e propria sentenza) nasconde linsoddisfazione di un regista costretto a scendere a compromessi con un sistema - quello dellindustria cinematografica italiana degli anni Sessanta e Settanta - inadatto a conferire qualità ai suoi prodotti, sistematicamente destinati a un ampio pubblico di poche pretese. Gli anni sono passati: la storia del vecchio cinema di genere nostrano è stata finalmente riveduta e corretta. Ed è da questa nuova rilettura critica che emerge il secondo volto di Mario Bava, quello della sua ineguagliabile abilità di artigiano romantico . Bava adoperava tale espressione con fare sprezzante (ma qui siamo ancora nellambito del suo primo volto) per quanto, a un esame più attento, la critica ha potuto evincere senza troppe remore lenorme importanza della sua concezione di cinema. La storia del cinema di genere è la storia di un cinema che non badava troppo alla forma né tanto meno al contenuto, ma che si proponeva di offrire al suo pubblico ciò che più poteva intrattenerlo. Sotto questa luce non cera spazio per fronzoli intellettualistici o per spunti di riflessione dalto livello; si trattava preliminarmente di attingere agli stereotipi più spicci offerti dai generi popolari (lhorror, il peplum, il western, la farsa, lerotico) al fine di garantire allo spettatore i canonici ottantacinque minuti di evasione pura dalla piattezza della vita quotidiana. Se lindustria poggiava su questa presa di posizione, in fondo vecchia il cucco, da parte sua il regista non doveva essere necessariamente un artista, e soprattutto | |
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